Scomparso inviato di Repubblica a Kabul

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Fatascalza
00martedì 6 marzo 2007 15:31
ANSA) - ROMA, 6 MAR - L'inviato di Repubblica in Afghanistan non ha piu' contatti con il suo giornale da domenica sera e la Farnesina sta compiendo delle verifiche. Lo confermano fonti del ministero degli esteri. Il giornalista Daniele Mastrogiacomo, partito per l'Afghanistan a meta' della settimana scorsa, si era recato nella zona di Kandahar. In questa area disponeva di contatti e intendeva realizzare alcuni servizi. Prima di partire aveva detto di voler incontrare qualche capo taleban.

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Speriamo non sia un'altra tragedia ... oramai non si contano piu' i rapiti, i morti nei paesi di guerra ...
bamby68
00mercoledì 7 marzo 2007 09:34
Re:

Scritto da: Fatascalza 06/03/2007 15.31
ANSA) - ROMA, 6 MAR - L'inviato di Repubblica in Afghanistan non ha piu' contatti con il suo giornale da domenica sera e la Farnesina sta compiendo delle verifiche. Lo confermano fonti del ministero degli esteri. Il giornalista Daniele Mastrogiacomo, partito per l'Afghanistan a meta' della settimana scorsa, si era recato nella zona di Kandahar. In questa area disponeva di contatti e intendeva realizzare alcuni servizi. Prima di partire aveva detto di voler incontrare qualche capo taleban.

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U mama sperem in ben!!!!!

Speriamo non sia un'altra tragedia ... oramai non si contano piu' i rapiti, i morti nei paesi di guerra ...

flydanny
00mercoledì 7 marzo 2007 09:43
Re: Re:

Scritto da: bamby68 07/03/2007 9.34



[SM=x714201] [SM=x714201] [SM=x714201]


Bye
mesopersolapasssword
00mercoledì 7 marzo 2007 11:59
E' strano
come ogni volta che l'Italia finanzia uana missione di "PACE", contemporaneamente, attraverso un falso sequestro "finanzia" anche gli altri.

Fatascalza
00lunedì 12 marzo 2007 22:30
Meso, ho pensato la stessa cosa.

Ora mi chiedo come possono pensare che l'Italia ritiri le truppe? Forse partono "alti" per ottenere meno ... me lo auguro ...
NonnaPiripilla1
00martedì 13 marzo 2007 08:03
mammmia chissà come sta quel pover'uomo...cosa deve pensare. Lo abbreccerei forte forte se potessi
bamby68
00martedì 13 marzo 2007 09:45
Beh speriamo sia falso, perche di morti decapitati ne abbiamo avuti abbastanza o credi fosse finto anche Quattrocchi? E Baldoni?
Fatascalza
00giovedì 15 marzo 2007 20:10
Ieri le notizie erano piu' o meno "confortanti", stasera è arrivata una notizia che a me mette agitazione, dall'ansa :

APPELLO DI MASTROGIACOMO: 2 GIORNI O CI UCCIDONO

KABUL - Con una voce forte ma carica di ansia, il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo sequestrato con due collaboratori afghani nel sud dell'Afghanistan una decina di giorni fa, chiede al governo italiano di "fare quello che i Taleban vogliono" entro due giorni, "altrimenti ci uccideranno". Nell'audio di circa 55 secondi, Mastrogiacomo parla in inglese. Si presenta e per confermare che è lui, ricorda il nome del figlio Michele. Colleghi a Kabul non hanno dubbi sull'autenticità della sua voce. "Sono Daniele Mastrogiacomo, per favore, abbiamo solo due giorni, dopo di che ci uccideranno. Per favore, fate quello che i Taleban vogliono, altrimenti se non lo fate ci uccideranno", ripete più volte l'inviato di Repubblica.

L'audio inizia con una voce maschile, che è stata identificata dal direttore dell'agenzia Danish Karokhel come quella del Mullah Dadullah, il comandante militare nelle province meridionali dell'Afghanistan. Dadullah, in pashtu, esorta Mastrogiacomo: "Dì: sono vivo, oggi è il 13 e se non accettano le nostre richieste entro il 16, ci saranno problemi per me". La registrazione è pervenuta via Internet alle 10 di questa mattina all'agenzia privata afghana Pajhwok, ha detto il direttore. Apparentemente, quella di Dadullah, molto più chiara, è fatta in un luogo diverso da dove parla Mastrogiacomo, le cui parole sembrerebbero arrivare via telefonica. Inoltre Dadullah parla del 13 marzo, Mastrogiacomo di "due giorni" alla scadenza, quindi la registrazione potrebbe essere stata fatta in tempi diversi. Anche se il riferimento rimane la minaccia di sabato scorso del mullah, che in una telefonata alla France Presse aveva fissato in sette giorni il tempo massimo entro il quale il governo italiano avrebbe dovuto stabilire una data per il ritiro delle truppe dall'Afghanistan pena l'uccisione del reporter di Repubblica. Il portavoce di Dadullah, Shahabuddin Atal, ha detto alla Pajhwok, che senza dubbio nel nastro è il comandante a parlare e il governo italiano ha "interlocutori sbagliati". Mastrogiacomo ènelle mani del gruppo di Dadullah, ha aggiunto, "é meglio che il governo italiano trovi il modo di parlare direttamente con il nostro gruppo, conDadullah e non con il Mullah Omar".

L'audio arriva alla stampa il giorno dopo il video, datato 12 marzo, pervenuto all'organizzazione Emergency, che si è prestata a trovare i canali per condurre trattative con i rapitori del giornalista. Nel video, la prima prova dell'esistenza in vita dell'inviato e reso pubblico ieri, Mastrogiacomo appare in buone condizioni di salute, provato ma tranquillo. Non parla di minacce o di scadenze, si dice ottimista che la soluzione arriverà, "con pazienza". Ma il giorno dopo, cioé il 13 marzo, i sequestratori hanno sentito la necessità di ricordare l'ultimatum posto con una telefonata sabato scorso. In quell'occasione, uno dei portavoce di Dadullah dava sette giorni al governo italiano per fissare una data per il ritiro dei 2.000 soldati italiani dall'Afghanistan e, nel nome della "libertà di stampa", chiedeva il rilascio di due portavoce Abdul Latif Hakimi e Ustad Yasir, nelle carceri afghane.

Mastrogiacomo, 52 anni, è stato rapito con l'autista e l'interprete afghano, nella provincia di Helmand, di fatto nelle mani dei Taleban, mentre probabilmente stava andando a incontrare uno degli 'studenti di teologia coranica'. Non ci sono informazioni precise, ma solo speculazioni sullo svolgimento dei fatti. In un primo tempo, il giornalista è stato accusato di essere una spia britannica, ma l'accusa è subito caduta. Il fondatore di Emergency, Gino Strada, ritiene che il nuovo audio sia per "fare pressioni". Emergency, che ha tre ospedali in Afghanistan fra cui uno a Lashkar gah, capoluogo di Helmand, ha dato la sua disponibilità a fare da "postino", non per le trattative. "Non ci riguarda", ha detto Strada più volte.

Il ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema ha detto oggi che il governo "non sta facendo nessuna trattativa" con i Taleban. "Ci sono dei canali umanitari che tengono i rapporti", ha aggiunto, e il governo "sta facendo tutto il possibile con la necessaria discrezione". Il presidente del Consiglio Romano Prodi, in un incontro oggi a Roma con una delegazione afghana guidata dal presidente del parlamento Yunus Qanuni, ha esortato il governo afghano a fare ogni sforzo perché si arrivi al rilascio di Mastrogiacomo. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto di augurarsi che si trovino i canali per liberarlo. "Rispetto ai sequestrati in Nigeria la situazione è più complicata, comunque non disperiamo", ha aggiunto. Su Mastrogiacomo, Prodi e D'Alema hanno avuto oggi un colloquio telefonico con il presidente afghano Hamid Karzai.
Fatascalza
00domenica 18 marzo 2007 14:13
Un pensiero affinchè oggi vada tutto bene e si possa festeggiare la sua liberazione.
Fatascalza
00lunedì 19 marzo 2007 15:20
Liberoooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!
cinuzza
00lunedì 19 marzo 2007 16:10
[SM=x714111] [SM=x714135] [SM=x714134] [SM=x714172]
--MUTTLEY--
00lunedì 19 marzo 2007 16:21
[SM=x714172] [SM=x714172] [SM=x714172]
dudok76
00lunedì 19 marzo 2007 17:01
Non si sanno ovviamente i particolari giusto?
Cioè ho letto di 5 capi talebani liberati in cambio, più presumo un riscatto?
mesopersolapasssword
00lunedì 19 marzo 2007 18:05
Favola.
Daniele Mastrogiacomo è libero.
La favoletta è finita.
Gli Italiani ci hanno rimesso altri soldi.

Qualcuno vuole andare a Kabul in vacanza?
Fatascalza
00lunedì 19 marzo 2007 18:19
Re:

Scritto da: dudok76 19/03/2007 17.01
Non si sanno ovviamente i particolari giusto?
Cioè ho letto di 5 capi talebani liberati in cambio, più presumo un riscatto?



No ancora non ho letto nulla ... [SM=g27819]
--MUTTLEY--
00lunedì 19 marzo 2007 19:44
Libero significa vivo e ancora in Afghanistan,sperando che non gli capiti un "incidente" come alla Sgrena!
Fatascalza
00lunedì 19 marzo 2007 19:58
Non penso che gli capiti quel tipo di incidente ... me lo auguro.

Circa la contropartita, non ci sono al momento notizie, indiscrezioni dicono che sono stati liberati 5 talebani.

Pero' per una vita salvata, "a me" sta bene cosi' ...
dudok76
00martedì 20 marzo 2007 09:34
Re:

Scritto da: Fatascalza 19/03/2007 19.58
indiscrezioni dicono che sono stati liberati 5 talebani.



Ieri la davano come notizia certa.

Comunque credo che mi asterrò dal dare il mio parere su questa vicenda,
avrei probabilmente troppe difficoltà a farmi capire. [SM=g27829]
.bogey.
00martedì 20 marzo 2007 09:37
Re:

Scritto da: --MUTTLEY-- 19/03/2007 19.44
Libero significa vivo e ancora in Afghanistan,sperando che non gli capiti un "incidente" come alla Sgrena!



non credo, i nostri servizi sono troppo isolati, ai tempi di Callipari invece erano culo e camicia [SM=g27829]
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 09:43
Intanto stamattina, il governo afgano, ha arrestato il capo del personale dell'ospedale di emergency che ha avuto un ruolo fondamentale nella liberazione.


Dicono che si tratta di un interrogatorio per le loro indiagini e poi lo libereranno .... Ma addirittura arrestarlo??
--MUTTLEY--
00martedì 20 marzo 2007 11:20
Re:

Scritto da: Fatascalza 20/03/2007 9.43
Intanto stamattina, il governo afgano, ha arrestato il capo del personale dell'ospedale di emergency che ha avuto un ruolo fondamentale nella liberazione.


Dicono che si tratta di un interrogatorio per le loro indiagini e poi lo libereranno .... Ma addirittura arrestarlo??



Io ho sentito che i familiari e i parenti dell'autista ucciso(circa 180/200 persone)avevano circondato l'ospdedale di Emergency!
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 11:35
Re: Re:

Scritto da: --MUTTLEY-- 20/03/2007 11.20


Io ho sentito che i familiari e i parenti dell'autista ucciso(circa 180/200 persone)avevano circondato l'ospdedale di Emergency!



Non erano i parenti dell'interprete??? Che non hanno notizie del loro congiunto?
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 16:16
Da "La Repubblica" (repubblica.it)


"I miei 15 giorni in catene
Mi dissero: spia, ti ammazziamo"

dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO


"Fra due ore, preparati". Il comandante, come lo chiamano, anche oggi è raggiante, perfino ironico. Entra nella stanza in terra e paglia dove dormiamo da domenica notte e annuncia: "Sei libero, voli via", mi dice mimando un aereo che decolla. Sono stordito. Le notizie che ho imparato a percepire da qualche parola di pashtun farfugliata dalle guardie all'esterno, mi fanno capire che tutto sta per finire. Sono ad un passo dalla libertà. Mi alzo in piedi, con le catene che mi stringono le caviglie da 15 giorni e fisso il comandante con stupore, allo stremo, diviso tra la paura di subire una nuova delusione e il fortissimo desiderio di tornare libero. Non credo più a niente, diffido di tutto. Lui mi stringe le mani. Ha un sorriso bianco circondato da una barba sottile nera. "Sure?" gli chiedo. Ride ancora, risponde: "Sure!", sicuro.

Salto dalla gioia, muovendomi a scatti per via delle catene che mi impediscono di fare dieci centimetri alla volta. Mi sono sentito, mi hanno fatto sentire, un prigioniero di Guantanamo. I sei guardiani, irrompono nella stanza, sono felici, sorridono, stringono le mani, mi battono pacche sulle spalle. Chiedono scusa, si avventano sui lucchetti delle catene. Le chiavi si sono perse nel deserto. Prima affrontano il catenaccio del collega e interprete afgano Ajmal, anche lui liberato e rientrato a casa.

È un lucchetto più grosso, ci vuole più forza e più costanza. Facciamo a turno, studiando come e dove rompere. Con tutto quello che troviamo. Io resto lì, ad osservare. Ajmal ha il viso distrutto. Troppe volte siamo rimasti delusi, troppe volte in uno sconforto che non mi faceva più respirare, mi sfogavo con lui e gli dicevo che si doveva assumere gran parte della responsabilità. Lo esortavo a reagire, a non usare quella tecnica della vittima, del finto malato, quasi dell'offeso. Avevamo davanti un gruppo tosto, forte, deciso. Non c'era nulla da essere offesi: ci avevano venduti. La sua fonte gli aveva promesso un'intervista ad un comandante di spicco dei Taliban. Non era così. Forse il contatto, che ha pagato con la vita, ci ha venduto come spie al capo di una delle due fazioni in cui sono divisi i Taliban. Così almeno mi pare di capire adesso. Ci sarà tempo per saperne di più.

UNA TORTURA
Non è stato un sequestro, ma una tortura. Psicologica e fisica, mentale, religiosa, politica, esistenziale. Quindici giorni che mi hanno segnato come quindici anni. Dentro e fuori. Nel mio profondo, nel mio subconscio.

Mi fanno cambiare vestito. Tradizionale. Il mio, sempre tradizionale, che ho indossato per due settimane è pieno di sangue. Lo hanno lavato ma non sono riusciti a cancellare le macchie nerastre che mi punteggiano perfino i pantaloni. I Taliban non vogliono fare brutta figura. Vogliono che il mondo sappia che trattano bene i loro prigionieri. Mi faccio una doccia, la prima in due settimane. Mi riprendo, ma sono ancora stordito. Temo altri intoppi, altre trappole. Chiedo conferma ad un ragazzo che fa il giornalista per i Taliban. Lui annuisce, mi dice che è vero che ci liberano, che è sicuro al cento per cento. Ajmal, il mio collega, sbanda. È bianco in volto. Continua a tenere il muso. Mi ha sempre detto di non credere più a niente. Impreca contro il governo Karzai, colpevole, a suo dire di provocare continui ritardi nel rilascio. Mi isolo, lo abbandono, non mi può essere d'aiuto in questo momento, come invece lo è stato molte altre volte.

Guardo Malaws, il malawi, l'uomo del vertice locale, a cui era affidata la gestione della nostra prigionia. È cresciuto, come tutti gli altri, in una madrassa. È un religioso. Mi ha chiesto di riflettere sull'Islam e mi ha sempre detto che per lui sarebbe stato un enorme gioia convincermi a diventare musulmano. Di lui mi fido, e vedo che anche lui sorride. Non so dove avverrà lo scambio. Penso al primo fronte della guerra. Io, con le catene ai polsi che cammino su un terra di nessuno, con i cecchini piazzati su entrambi i lati. Mi assale di nuovo l'angoscia. Dico che non è finita, che rischio ancora la vita. Penso a Calipari e alla Sgrena.

"DA UOMO A UOMO"
Ajmal si è ripreso, mi dice che le soluzioni sono due: un accordo con garanti i grandi capi tribù del posto, che ci prendono in consegna; oppure la prima linea. Ma la vede complicata. Prego, prego per l'ennesima volta. Chiedo a quel Dio con cui ho sempre comunicato se riuscirò a sopravvivere. Provoco il comandante: lo fermo e gli dico: "Parliamo da uomo a uomo. Tu mi hai condannato nel deserto, prima di fare tagliare la testa a quel poveraccio, e adesso mi liberi. Mi credi una spia o un giornalista? Di cosa sei veramente convinto?". Lui mi guarda fisso. Adesso non sorride più. "Un giornalista", risponde. "No problem - insiste - sei libero. Mi caricano su una macchina, una Toyota Corolla vecchia e anonima. Due ragazzi mi stringono sul sedile posteriore. Sono armati di kalashnikov.

Davanti siedono il comandante, che guida, e Malaus, il religioso che ha gestito le ultime fasi della nostra prigionia. Ci segue un pick-up pieno di ragazzi armati, molti hanno già innestato il lanciarazzi anticarro. Cerco di capire come avverrà la liberazione. Ci hanno divisi da Ajmal e come traduttore c'è solo l'aspirante giornalista. Continua a filmare la mia liberazione, il corteo di camioncini e macchine. Percorriamo una strada sterrata, lungo il canale del fiume Helmand che serve ad irrigare le piantagioni di papavero. Sono tutte in fiore. Sembra cicoria selvatica, la coltivano tutti. Helmand, mi dice Malaus mentre ci dirigiamo verso il punto di scambio, è la provincia più ricca di tutto l'Afghanistan. L'oppio serve a voi, ce lo chiedete voi, noi non lo usiamo, lo vendiamo. Mi rimettono le catene ai polsi. Mi assale di nuovo l'angoscia, continuo a dirmi che non è finita, non voglio illudermi, non voglio tornare a pensare che devo morire.

Prendo tempo, scherzo, mi metto il turbante, scambio qualche parola di pashtu che ho imparato in queste due settimane. Loro diventano di nuovo duri. Con un gesto della testa mi dicono di restare in macchina mentre loro scendono e si vanno ad appostare dietro degli alberi. C'è tutto il vertice del gruppo. In due settimane ho visto almeno 80 persone diverse. Tre sono arrivati direttamente dal Pakistan, durante la sosta nella prigione in mezzo al deserto, nell'estremo sud, nelle zone tribali.

(continua)
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 16:17
LO SCAMBIO
Avviene sul fiume. Mi portano vicino al luogo dove hanno ucciso l'autista. Sorrido, chiedo se non si tratti di uno scherzo. Io, ammanettato, convinto di essere liberato e invece scambiato come un animale. Mi dicono di stare tranquillo, ma continuo a tremare e non riesco a trattenere l'ansia che mi sta esplodendo dentro. Arrivano altri furgoni, macchine, pick-up. Pieni di ragazzi armati, con turbanti e le keffya. Urlano, agitano le armi. Il comandante, con il suo satellitare e l'auricolare che gli conferiscono il carisma del capo, urla ordini concitati. Dall'altra parte del fiume vedo decine di altre persone. Penso a dei soldati, a dei poliziotti afgani. Temo una sparatoria. I mezzi vanno spediti lungo la sponda, siamo in un campo aperto. Non accadrà nulla. Guadiamo il fiume con una barca trascinata da una cima, dall'altra parte vedo che ci sono solo capi tribù. Sono i garanti, sono quelli che possono garantire l'incolumità. Non so nulla, vado alla cieca, non ho sentito notizie per due settimane, non so per cosa e chi stia trattando.

Arriviamo dall'altra parte. Vengo preso dolcemente, accompagnato verso altre macchine. I Taliban sono esaltati. Scendono, abbracciano tutti, sparano in aria raffiche di armi automatiche leggere e pesanti. Il giornalista continua a riprendere con la telecamera. Mi tolgono finalmente le catene ai polsi che hanno ripreso a sanguinare. Salto a terra. Incontro il delegato di Emergency, tutti vogliono farmi fotografie. Sono stordito, felice, ma tremo ancora alla paura dell'ennesima delusione. Ormai non mi fido più di nessuno. Montiamo in auto, continuo ad aver paura.

Il mediatore che mi è venuto a prendere mi rassicura. Mi dice che sono salvo che ora posso sentirmi come in Italia, a Roma. Mi avvolgo con la mia coperta che fa parte del vestito, incrocio le gambe sul sedile, non sono più abituato a stare seduto normalmente. Mi raccolgo in un fagotto, mi accendo una sigaretta, la fumo nervosamente. Guardo verso il deserto che attraversiamo, mi manca l'aria, apro e chiudo in continuazione il finestrino. I cammelli, gli asini, i colori, il sole che sta tramontando, la preghiera da fare rivolti verso la Mecca. Guardo sulla mia destra e ho un soffio al cuore. Mi hanno catturato qui. La zona è identica. Sono sicuro. Mi escono le lacrime, mi bagnano il viso impolverato, la barba lunga. Piango, finalmente piango.

LA CATTURA
Mi arrestano, mi rapiscono, qui, a un chilometro dal centro di Laskhar Gah. Avevo deciso di andare a sud, a Kandahar e poi a Laskhar Gah. Perché qui domina il movimento Taliban e qui si può toccare con mano la realtà che ci viene raccontata da altri. È sempre stato il mio modo di lavorare. Vedere con i miei occhi, ascoltare, registrare e poi raccontare. L'ho fatto decine e decine di altre volte. In Iraq, in Somalia, in Palestina. Il collega afgano dice di aver preparato tutto, che l'intervista con un comandante militare è fissata per le 11. Con l'autista usciamo da Laskhar Gah, un chilometro e prendiamo a bordo un ragazzo. Ha il tradizionale telo che gli copre anche gli occhi. Lo saluto, non risponde. Indica la strada. Una strada di sassi e ghiaia che si perde nelle campagne. Facciamo un chilometro. Varchiamo canali di irrigazione, poi ci fermiamo. Dalle colline appaiono tre moto nere. A bordo ci sono tre ragazzi vestiti come i Taliban, turbante nero e vestito grigio scuro. Sono armati. Ci bloccano. Ci guardano torvi. Fanno scendere dall'auto i miei compagni, legano loro le mani dietro la schiena con i turbanti. Aprono il mio sportello, quello posteriore. Mi guardano, scostano il turbante che mi copre in parte il viso. Mi fanno scendere, ci prendono tutto quello che abbiamo, soldi, passaporto, documenti, computer, orologio, telefoni. Resto interdetto, mi do delle spiegazioni, credo che si tratti solo di un equivoco. Noi abbiamo un'intervista fissata qui, è tutto regolare. Mi puntano le canne dei fucili addosso. Legano le mani anche a me e mi mettono una benda sugli occhi. Mi sento impazzire, scopro di soffrire in modo terribile di claustrofobia, che devo vedere la luce. Mi manca il respiro. Riesco a liberarmi, mi tolgo la benda. Il calcio del kalashnikov mi colpisce la schiena. Cado a terra. In ginocchio, alzo le mani, mi arrendo. Mi arriva un secondo colpo di kalashnikov sulla testa. Il sangue esce a fiotti, mi impregna la benda degli occhi. Mi infilano nel portabagagli, poi nuova sosta, mi infilano un cappuccio nero e mi caricano sul sedile di una moto.

L'INTERROGATORIO
Finisco, con gli altri, dentro una casa di fango e paglia. Sono tutti lì, una decina, parlano, ci offrono del tè, ci dicono che siamo in arresto: "Ingresso illegale in territorio taliban. Devono verificare chi siamo. Se scoprono che siamo spie ci uccidono, se invece siamo giornalisti come stiamo dicendo da subito, serviremo per uno scambio di prigionieri. Sono duri e formali insieme. Lo saranno sempre, seguendo un gioco psicologico che ho dovuto imparare e saper gestire per salvarmi la vita. Mi bendano di nuovo, mani legate dietro la schiena, perdo le scarpe, mi trascinano ridendo. Ho paura di essere ucciso. Sono in mani loro, non so dove mi trovo, possono spararmi e seppellirmi in una buca. Mi infilano nel portabagagli. Urlo di togliermi la benda agli occhi. Li imploro, li scongiuro. Urlo quel please, please che mi renderà famoso in tutta Helmand. La benda mi scende sulla bocca, non respiro, vengo sballottato per almeno un'ora. Penso allo yoga, disciplina che non ho mai fatto ma di cui ho letto molto. Mi devo calmare. Ci riesco. Mi fanno scendere. Sono all'inizio di un deserto. Mi caricano con i miei due compagni su una Land Cruiser con il cassone aperto pieno di giovani armati. Veri soldati. Ci legano le braccia strette dietro la schiena e ci fanno sedere di spalle. Viaggiamo di notte, per quattro ore nel mezzo del deserto.

Sassi, buche, dune di sabbia, spezzoni di montagna che apparivano all'improvviso. Un paesaggio mozzafiato. Il cielo è stellato mi rincuoro, Penso che si tratterà solo qualche giorno, il tempo di scoprire chi siamo realmente. Gli scossoni mi spezzano la schiena. Non posso muovermi. Devo solo resistere. Arriviamo in un villaggio sperduto, verso sud. Ci infilano in una stanza di fango e paglia. Chiudono la porticina di ferro con un lucchetto. Mi avvolgo in una coperta che mi terrà compagnia per tutto questo lungo incubo.
Partiamo all'alba, dopo la prima preghiera, quella delle sei. Momento intenso a cui posso assistere senza interferire. Sono e resto un taskfir un infedele. L'acqua, il cibo, gli oggetti che tocco appartengono solo a me. Nessuno dei miei carcerieri può toccarli. Sarebbe un atto impuro. Ci dirigiamo ancora più a sud, altri deserti, altre montagne. Ci infiliamo in una gola, saliamo colline e strade impossibili. Troviamo un'altra costruzione isolata da tutto e da tutti. Restiamo dentro un'altra notte.

(continua)
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 16:17
Comprano delle catene, ce le legano ai piedi con i lucchetti e a me legano anche i polsi. Dividiamo cibo e coperte. Non ci fanno mai mancare nulla. Persino le sigarette che sono riuscito a non fumare per sette giorni di seguito. Restiamo due giorni in questo buco in fondo al mondo. Sempre chiusi in un ovile, dormendo per terra, un mattone come cuscino, le pulci che ti divorano, le croste di sporcizia che ti si formano sul corpo. Cerco di mantenere una mia dignità, mi lavo spesso, ma solo con l'acqua.

Dormo spesso, cerco disperatamente di uscire da questo incubo. Ma i pensieri mi riempiono la mente. Penso a tutto. A cosa fare, a cosa dire, a come comportarmi. A turno ci vengono a trovare nel nostro buco e parlano di tutto. Ahjmal dice che stanno prendendo informazioni, di fare molta attenzione a quello che dico. Imparo a trattenermi, a non lasciarmi andare. Ho un solo obiettivo: dimostrare che non sono una spia. Calibro le risposte, gioco sulla sincerità, sulla mia onestà intellettuale e professionale. Ma capisco che il gioco è più sottile. Parliamo molto di religione. Mi chiedono come ci comportiamo nella nostra società, come facciamo l'amore, quali pene sono previste per chi uccide, ruba o fa adulterio. È difficile far capire come sia diversa la nostra società. Loro ascoltano, ridono e poi diventano seri. Tornano ad essere gentili e poi improvvisamente danno sfogo ad una furia che non si spiega.

Mi rispettano, ma mi condannano. Sono sempre a viso scoperto, mi dicono i loro nomi. Continuo a spiegare che sono un uomo maturo, che ho i miei acciacchi, che non posso resistere al loro livello di vita. Loro capiscono, annuiscono, ma spiegano che questa è la jihad. Che loro combattono per il trionfo dell'Islam. Perché è la sola religione in grado di gestire l'essere umano. Mi servono sempre un piatto a parte. Pensavo si trattasse di un gesto di riguardo. Ajmal mi fa capire che si tratta di distacco dal takfir. Io non ho colpa a non essere musulmano, ma questo impedisce loro di avere qualsiasi contatto fisico con me. Mi addormento verso le 10 del mattino.


LE PERCOSSE
Il primo sonno liberatorio. Mi svegliano di soprassalto. L'autista è già rientrato nell'ovile e piange a dirotto. Lo guardo, un po' smarrito. Non so cosa sia accaduto. Lui mi sussurra: "Digli che mi davi 50 dollari al giorno". Mi prendono, mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno entrare in un'altra stanza. Sono tutti lì, in circolo. Uno dei vice capi mi interroga, mi chiede dei soldi, rispondo, mi chiede cosa ci fosse nel mio computer, gli dico tutto chiaramente. Lui insiste. Mi chiede quanti soldi avessi. Gli dico quello che mi ricordo. Loro mi indicano il pavimento, mi fanno stendere e poi iniziano a frustarmi con pezzi di tubi di gomma. Dieci colpi, gridano Allah akbar, Dio è grande. Io urlo: "Basta!". Si dice così anche in pashtun. L'uomo che mi sta davanti e che mi indica con la mano che mi tagliano la gola, ordina di smettere. Ridono in molti, ripeto, please, please, ricordando le mie implorazioni dei giorni passati. Il cuore mi batte all'impazzata. Sono ancora salvo, ma è molto, molto più grave di quello che immagino. Non mi spiegano nulla, cerco di percepire da questo mucchio selvaggio quale può essere il mio destino. So che hanno scoperto chi sono e su quale giornale scrivo. Ci spostiamo, dormiamo nel deserto, all'addiaccio per altri tre giorni. Mi vuole vedere il comandante, mi dicono. Ci raggiunge, in una casa di sabbia e calce sequestrata ad un contadino. Mi parla, mi guarda, mi chiede, ascolta le mie risposte. Gli chiedo se possono togliermi le catene ai polsi. Lui mi dice che è impossibile, lo impongono le loro regole.

LE REGOLE
Imparo a conoscere queste regole a mie spese. Devo fare attenzione ad ogni mio atteggiamento. Rischio di offendere la loro suscettibilità religiosa. Devo usare il mio contenitore dell'acqua, non devo mai mischiare il mio cibo con gli altri. Imparo a sedere sulle caviglie incatenate. Ma sono quelle che mi stringono i polsi a farmi impazzire. Dal Pakistan arriva uno di Al Qaeda. Mi scruta con uno sguardo d'odio. Diventerà la persona più sensibile nei tre giorni in cui mi accudirà. Quando piangevo nel pieno del deserto, tremando per il freddo che mi aggrediva mani e piedi, mi spalmava balsamo di tigre e mi parlava di Islam, di Allah, del fatto che forse Dio aveva deciso di farmi trovare in loro compagnia e che in questo modo potevo capire cosa fossero in realtà i Taliban.

Sogno, sogno in continuazione, io che non li ricordo mai. Sogno mia madre che mi dice di tornare. Sogno mio padre, morto l'estate scorsa, che mi dice che mi sta aiutando. Lui che è stato un marinaio, provoca tempeste di sabbia, di pioggia, fa bucare per tre volte di seguito le gomme della jeep del gruppo selvaggio. Sogno i miei familiari che sulla sponda opposta di un fiume mi allungano braccia e mani. Sogno i miei figli, mia moglie, i miei fratelli e sorelle. Credo ancora che la situazione si possa risolvere. Credo, sono convinto che il governo non mi abbandonerà. Ma le speranze si affievoliscono. I giorni passano. Assisto a battaglie improvvise, ad agguati che il gruppo deve comunque fare. Più di una volta vengo trascinato, sempre incatenato, ma a terra e coperto da un mujahiddin che sparava come un folle con il suo kalashnikov.

Nelle pause, questi ragazzi di 24/25 anni, mi chiedono cosa scriverò di loro, cosa penso della loro jihad, ma che comunque anche se morirò avrò la possibilità di rivederli di Paradiso. Insistono sul Paradiso e a turno mi dicono che la sola mia scelta è di diventare musulmano perché solo in questo modo salverò la mia anima. Agfirt, quello che mi chiama Tony Blair, Mnojasteriur, il Maulas, perfino il comandante, sgranano gli occhi quando mi vedono pregare. Evito il segno della croce ma mi metto in ginocchio anche io cinque volte al giorno e prego il nostro Dio, il mio Dio, di salvarmi.

Penso a mia moglie, all'angoscia che le ho procurato. Ai miei figli. Ed è in quei giorni che arriva il primo messaggio di una trattativa. Mi chiedono quale avrebbe dovuto essere il nome di nostra figlia, quella su cui fantasticavano da anni. Un nome in codice che mi fa uscire le lacrime dagli occhi, che mi provoca un'emozione fortissima.

Torniamo indietro. Verso Nord. In una casa incrociamo il comandante, parliamo di nuovo, gli chiedo notizie. Ma vedo che il confronto deve essere più sottile, forse più profondo. Parliamo di politica. Di religione, di costumi. Io rispondo, ma lui evita di fare lo stesso con le mie domande. Mi fa capire che è ancora tutto da decidere.


continua
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 16:18
L'ESECUZIONE
Siamo tornati nella zona controllata dai Taliban. Ettari e ettari coltivati a oppio. Sono in fiore e fra due settimane i boccioli duri verranno incisi con gli speciali coltelli. Uscirà l'oppio e poi verrà trasformato in eroina. Cambiamo ancora casa, la tredicesima. Apparteneva a un uomo ucciso per avere ucciso a sua volta un altro uomo. Malaus gestisce la prigionia. Il giornalista dice che bisogna fare un video per premere sul governo afgano. Ci accucciano su una jeep, attendiamo per ore sotto il sole. Poi andiamo sulla sponda del fiume, arriva il comandante. Si camuffano tutti il viso. Ci legano le mani dietro la schiena, ci bendano gli occhi ci fanno inginocchiare.

Io riesco a vedere la scena. Non posso non guardare. Resto agghiacciato. L'autista, sparito per due giorni è rimasto isolato in una cella diversa. Viene portato al centro. Il comandante emette la sua sentenza di morte. In nome dell'Islam. Dice che noi siamo delle spie. Che dobbiamo morire. Vedo Ajmal che piange, non capisco, gli chiedo cosa abbiano detto, lui risponde in singhiozzi: "Ci ammazzano". Io mi alzo sulle ginocchia, vedo l'autista afferrato da quattro ragazzi, gli spingono la faccia sulla sabbia, gli tagliano la gola e poi continuano, gli tagliano tutta la testa. Lui non riesce ad emettere un solo rantolo. Puliscono il coltello sulla sua tunica, legano la testa mozzata sul corpo, lo trasportano sulla sponda del fiume, lo lasciano andare. Io resto in attesa, mi tremano le gambe, farfuglio qualcosa al comandante, gli chiedo cosa sta succedendo. Mi sento afferrare, mi vedo anche io con la gola tagliata, il sangue che schizza da tutte le arterie prosciugato dalla sabbia, il corpo affidato al corso del fiume. Veniamo presi e rimessi sulle jeep.

Arriviamo in una nuova prigione, in mezzo ad una piantagione di papaveri da oppio. Nel granaio sono ammassati centinaia di chili di oppio, pronti alla vendita. Respiriamo quell'aria piena di narcotico e mi sveglio sempre stravolto. Ci resteremo due giorni. Lì gireremo i sette video, molti dei quali mai spediti, lì lancerò i miei disperati appelli, mi rivolgerò a tutti. Al mio direttore, a D'Alema, ancora a Prodi, al mio amico Silvio Sircana, ai colleghi, agli amici, a chiunque mi venisse in mente. Malawi, il religioso, sorride, mi dice che vanno bene. Io arrivo a consigliarli come fare delle riprese più efficaci. Arriva un secondo messaggio in codice, sui cani di mio padre. Riferisco dettagli precisi, mi offro di chiamare l'ambasciata, il giornale, mia moglie, la presidenza del Consiglio. Loro non li spediscono tutti, verrò a sapere. Volevano conservarli in caso di nuove pressioni. La regia è diventata sofisticata, gli ordini sento che arrivano dal Pakistan o da fuori. Vedo che il comandante non è più il solo a decidere. Cambiamo ancora prigione, l'ultima. Sento che c'è una svolta, che l'impossibile può avvenire. Sono tutti felici.

Poi, un nuovo blocco, attribuito ai governi alleati che si oppongono, Malawi irrompe nel stanza e mi dice che se non si interviene ancora mi uccidono domani. Mi assale ancora l'angoscia, ormai non mangio e non dormo più. Faccio ginnastica, cammino, le catene mi fanno male, mi soffocano. Devo fare i miei bisogni come dicono loro, seduto sulle miei caviglie. Mi devo lavare come dicono loro, devo pregare come dicono loro. Lo impongono quasi con dolcezza, spiegandomi che è il solo modo di restare puri.

IL PARADISO
Iniziano le lezioni sul Corano, il comandante mi regala un registratore in cui viene recitato e tradotto in inglese. Ma mi hanno preso tutto, compreso la fede che porto al mignolo, quella di mia moglie. La scoprono dopo dieci giorni, con un sorriso la sfilano nonostante la mie timide proteste. Lotto con me stesso, evito di soffocare, mi aggredisce sempre più spesso l'angoscia. Chiedo arance e medicine, dico che non mi reggo più, devo camminare, mi fanno male le caviglie e i polsi stretti dalle catene.

Arriva l'ultimo giorno. Credevo fosse il solito. Speranze e delusioni che si alternano. No, questa volta è vero, mi liberano. La radio che ho sentito per caso in inglese dice che lo hanno annunciato anche i Taliban. Il comandante mi abbraccia, falso e sincero al tempo stesso. Gli dico che ha vinto. Lui, prima di lasciarmi andare, in perfetto inglese, mi sussurra ad un orecchio: "Se dio vuole, Inshallah, ci vediamo in Paradiso". Mi volto, ed è già sparito, tra i suoi uomini che sparano raffiche di mitra in segno di festa.


- tratto da repubblica.it -
--MUTTLEY--
00martedì 20 marzo 2007 16:49
Re: Re: Re:

Scritto da: Fatascalza 20/03/2007 11.35


Non erano i parenti dell'interprete??? Che non hanno notizie del loro congiunto?



Scusa,ma l'interprete ho capito che l'hanno liberato con Mastrogiacomo! [SM=g27833]
Fatascalza
00martedì 20 marzo 2007 16:50
Avrebbe dovuto, peccato pero' che non ci sia traccia e si pensi sia ancora sotto sequestro.
flydanny
00giovedì 22 marzo 2007 12:51

Da ieri pare sia in atto una campagna denigratoria da parte degli USA ( ma anche da parte degli inglesi e dei tedeschi che hanno due ostaggi in mano ai talebani) sulle modalità della liberazione.
All'indomani dell'avvenimento, "LIBERO" titolò: "A QUALE PREZZO?" e tutti gridarono allo scandalo, quasi che le perpetue non sapessero che tutto ha un costo, ed in questi casi e con queste persone, i conti sono sempre in perdita.
Tuttavia, mi piacerebbe osservare e far osservare alla "Condoliza" che stiamo ancora aspettando la presenza del soldato-ragazzotto del Klondike, che sparò al nostro Nicola Calipari, per non dire del processo per la strage del Cermis....


Bye


dudok76
00giovedì 22 marzo 2007 14:34
mmmm...che argomento spinoso.
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