Ricordo una domenica pomeriggio, anni ottanta, pioveva, uno di quei temporali che servono solamente a costringere la gente a chiudersi in macchina e formare file incredibili.
E mi trovai rinchiuso in una fila angosciante, il cielo scuro alle 3 di pomeriggio, la pioggia, i clacson, la gente nervosa che sbuffa dentro le altre auto...
Così presi una strada laterale e mi buttai verso le colline, con il silenzio che era qualcosa di pesante, come una cortina solida e tangibile.
Ricordo che infilai una cassetta e non la tolsi che alla fine della giornata, così che quel pomeriggio on the road in cui ogni metro di asfalto che passava sotto le ruote era un metro ideale che andava ad aumentare la distanza è rimasto nella mia mente indissolubilmente legato ai versi strampalati ma graffianti di quelle canzoni, in quel pomeriggio in cui il tempo sembrava essersi congelato, in cui aspettavo che calasse la sera per tornare a casa e porre termine a quel silenzio.
Ma ora che ci penso, andando ancora più indietro nel tempo, mi accorgo che ogni momento della mia vita è legato ad una canzone, o forse ad ogni canzone è legato un momento particolare della mia vita, che poi forse è la stessa cosa.
Ed allora ricordo i miei vent'anni in una Cooper 1300 con Bob Marley a fare da colonna sonora : erano gli anni del reggae, del concerto di Peter Tosh allo stadio, con la gente stravaccata sul prato umido, la musica che ti prendeva le gambe e ti costringeva ad alzarti e ballare con quelli che erano intorno a te. Non conoscevi nessuno ma erano tutti amici, e tutti felici, e sembrava proprio di avere il mondo nelle mani.
Poi c'è stata una vacanza e la musica era di Fabio Concato, con le sue ballate dolci e la sua voce un po' nasale ma struggente.
E' arrivato il servizio militare, il corso AUC alla Scuola del Genio, i primi giorni erano scanditi dalla voce di Phil Collins che faceva compagnia in quelle giornate, cantando di qualcosa che poteva sentire arrivare nell'aria della notte, ed a me venivano i brividi, e non solo per il freddo delle notti in giro per l'Italia o ben più lontano... Nei rari momenti di imboscamento in cui me ne fuggivo in sala musica, all'ultimo piano dove, ci sedevamo di fronte ad una grande finestra e da lassù guardavamo l'autostrada e la ferrovia che correvano a braccetto nella campagna, e che sapevamo arrivare fino a casa, sembrava che da lassù bastasse spingere lo sguardo un po' più lontano per intravedere il mare, la spiaggia... come se bastasse appoggiare l'orecchio al vetro per udire il rumore della risacca, dei gabbiani...
Quante volte ho visto ragazzoni alti e grossi piangere con la fronte appoggiata al vetro, quante volte ho ascoltato giovani musicisti tristi improvvisare assoli struggenti di sassofono o di tromba, con lo sguardo fisso oltre quella finestra. Chissà se qualcuno di loro avrà avuto successo, se qualcuno di loro avrà composto qualcosa ripensando a quella finestra in sala musica nella caserma.
Chissà se qualcuno ha mai ripensato a quei mesi vissuti fianco a fianco, a quelle amicizie nate dalla sofferenza e dalla tristezza che sembrava dovessero andare avanti per tutta la vita, e che invece un fonogramma di trasferimento ha spezzato per sempre.
Chissà dove è finito il pazzoide Ruffolo, pesarese di nascita ma cittadino del mondo, maestro di flauto con già diverse incisioni alle spalle, che un giorno ci fece venire i brividi suonando un piccolo ottavino che si teneva nelle tasche della mimetica, chiuso in una scatolina come fosse una reliquia di chissà quale santo.
O il ravennate Cristano, che non suonò mai niente perché l'oppressione della caserma gli impediva di avere la mente libera, o l'impacciato Fabiano, bassista di Roma spaesato di fronte alla vita militare, fatta di piccole furberie e grosse ingiustizie.
Il fiorentino Rossi, disperato perché destinato ai Bersaglieri di Milano, fece di tutto per non andarci perché, come mi ripeteva:
"Sandro, tu lo sai, ibbersaglieri horrono, e quando tu horri tu saltelli, ella tromba pure ti saltella, e allora tu te la devi premere forte su i llabbro se la voi sonà, perché altrimenti tu te la perdi. E se tu te la premi forte su i llabbro pe' un anno, esse pe' un anno tu soni correndo, ti viene i'ccallo su i'llabbro e non vavvia più. Poi devi sonà correndo pe' ttutta la vita: te l'immagini io che sono a La Scala?
I cche ffò, corro tutt'intorno pe' il teatro? No loro so' matti. Io nun ci vo', piuttosto vo' in Sardegna"
O il veronese Mazzon, enorme ed imponente ma con una faccia simpatica da bambino troppo cresciuto. Ricordo che vagò per una settimana in borghese perché non riuscivano a trovare una divisa della sua misura, e così
aveva gli occhi di tutti addosso: i commilitoni che lo prendevano in giro e gli ufficiali che lo redarguivano, e lui spaesato ma tranquillo non perdeva mai la calma e rideva di tutto:
"Dio bòn, come devo far siòr Tenente? Son grosso, son troppo grosso."
Lui, secondo corno all'Arena di Verona, un giorno ci suonò la marcia dell'Aida nel piazzale della caserma, una domenica pomeriggio in cui tutti erano andati in licenza ed il sole di settembre ancora scottava, e noi attenti e commossi alla vista di quel ragazzone dal corpo sproporzionato capace di tirar fuori dai polmoni una musica così fiera.
Poi ritrovai il romagnolo Giacomelli, fu il mio grande amico negli anni; poi tanti altri di cui non ricordo il nome ma ho stampate in mente le facce, compagni di avventura in un periodo che non considero negativo.
Era il periodo di Battiato e in tanti cercavano un centro di gravità permanente che non ci facesse mai cambiare idea sulle cose e sulla gente...
Chissà se qualcuno di loro lo cerca ancora?
Come tutti avevamo quel filo di autoironia e di leggera follia che ci ha permesso di scivolare via senza grossi traumi. Era come un gioco per noi, e forse la nostra salvezza era proprio il fatto che riuscissimo a parlare la stessa lingua.
Ancora adesso ricordo con molta nostalgia i pomeriggi di primavera imboscati a suonare e cantare a squarciagola le canzoni di Vasco che in quel momento sentivamo così vicine a noi. Ancora oggi quando mi capita di ascoltare l'attacco di "Colpa d'Alfredo" mi viene la pelle d'oca, e rivedo le facce dei colleghi...
Io che, quando il silenzio e la tristezza stavano prendendo il sopravvento, attaccavo all'improvviso, a bassa voce:
"Ho perso un'altra occasione buona stasera..."
E Marchionne subito:
"E' uscita col negro la troia"
E poi tutti insieme:
"Mi son distratto un attimo... colpa d'Arfredo che con i suoi discorsi seri e inopportuni mi fa sprecare tutte le occasioni. Io prima o poi lo uccido..."
E poi veniva un urlo che uscendo dalle finestre sembrava potesse attraversare tutta la citta' e da lì invadere tutto, fino al mare:
"Lo uccidoooooo! Tattaratattata... tara tara tara tara tara tara Tattaratattata...
E quella stronza non si è neanche preoccupata...
Di dire qualche cosa, che so' una scusa..."
E come d'incanto la tristezza svaniva, una scarica di adrenalina investiva ogni cellula del nostro corpo e trovavamo così la forza per resistere un altro giorno.
Col tempo era diventata un'abitudine all'interno del nostro gruppetto di amici affiatati, come una parola d'ordine, una specie di saluto segreto da sostituire al saluto militare che eravamo obbligati a ricambiare a chiunque. Se mi capitava di incrociare Marchionne nel piazzale dello SME, in mezzo al solito viavai di colonnelli e generali, non appena arrivati a distanza di sussurro, con fare da cospiratori e senza smettere di camminare io sibilavo quasi senza muovere le labbra:
"Ho perso un'altra occasione buona stasera!"
E lui di rimando, con lo sguardo fisso all'orizzonte:
"E' uscita col negro la troia!"
E via ognuno verso le proprie mansioni, ricambiando militarmente il saluto a destra e a sinistra ad ogni balenare di una stellina, ma con il sorriso sulle labbra e un urlo silenzioso dentro al cuore:
"Io prima o poi lo uccido... Lo uccidoooo....."
In fondo sapevamo di essere soltanto di passaggio. Non ce ne rendevamo conto, ma avevamo trovato istintivamente un'ancora di salvezza, un appiglio a cui attaccarci per non essere trascinati via dalla mediocrità e dalla piattezza dell'ambiente che ci circondava.
Grazie Vasco.